Intervista a sr Rita

Intervista a sr Rita

Voci dal territorio… di Gabriele Minimo e Policarpo Saltalamacchia

*Si può presentare?

Sono una suora orsolina del S. Cuore di Maria (di Vicenza) e vivo a Caserta da 15 anni, insieme ad altre tre consorelle. Condividiamo la nostra vita con delle donne migranti. In quest’ultimo tempo molte giovani arrivano incinte e qui, a Casa Rut, si aprono al dono della vita. Noi le aiutiamo a crescere i figli e a trovare una loro collocazione.

*Ci può parlare di Casa Rut?

Casa Rut è nata la bellezza di 14 anni fa, ma non subito. Appena arrivate ci siamo date del tempo per cercare di conoscere questo territorio. Abbiamo avuto un padre spirituale che ci ha aiutate a conoscere la realtà, il Vescovo Raffaele Nogaro. Un padre e un maestro, per noi, che ci ha aperto gli occhi, il cuore e le mani accompagnando il nostro inserirci in un territorio particolare e nell’avvicinare una realtà, qual era l’immigrazione. Da subito abbiamo sentito che il fenomeno immigrazione ci provocava all’impegno, ci chiedeva di essere e di farci ‘compagnia’ per cercare di portare insieme le sofferenze e i disagi di tante sorelle e fratelli migranti. Girando per le strade della provincia, per conoscere il territorio e incontrare le associazioni che ne fanno parte, vedevamo tante ragazze straniere, in particolare di colore, lungo i bordi delle strade. Sempre nella prima fase siamo venute a conoscenza della presenza di un carcere femminile a Caserta, in centro città, dove metà delle detenute erano donne straniere. Quel carcere era per noi una provocazione e una chiamata. Il nostro primo impegno-servizio è stato quello di entrare tra quelle mura e avvicinare le donne straniere. La stessa Direttrice del carcere, la dott.ssa Liliana De Cristofori , con la quale avevamo stabilito un proficuo dialogo, da subito ci ha orientate dicendoci: “Se volete scegliere gli ultimi, avvicinate soprattutto queste ragazze straniere, perché qui, fra queste mura, sono le ultime fra le ultime. Non hanno mai una visita da parte di familiari, mai una lettera o un pacco cha arrivino loro, si sentono abbandonate. Queste donne hanno realmente bisogno di un punto di riferimento”. Abbiamo accolto questa provocazione avvicinando settimanalmente queste ragazze. In seguito abbiamo osato di aprirci all’affidamento in prova accogliendo, nell’arco di due anni, 14 ragazze straniere, anche se il servizio in carcere era per noi (e anche per la nostra Congregazione) qualcosa di nuovo e di inesplorato. L’esperienza assai significativa si è poi conclusa per l’improvvisa chiusura del carcere e il conseguente trasferimento delle donne in altri case circondariali sparse sul territorio nazionale.

L’8 marzo del 1997 abbiamo scelto di avvicinare e di incontrare la vita delle ragazze della strada. Siamo andate a portare loro una piantina, una primula… ma ancora non conoscevamo il loro dramma. Non avevamo ancora capito che lì, in queste nostre strade, vivevano come delle schiave. Capivamo che ‘quel lavoro’ non poteva essere frutto di una scelta libera. Attraverso quel gesto, che ha spezzato la paura sia da parte nostra che da parte delle ragazze, è iniziata un’avventura stupenda che ancora stiamo vivendo. Da quel giorno più di 340 ragazze sono state accolte a Casa Rut. Al grido di aiuto, raccolto quel giorno, abbiamo aperto il nostro cuore e ci siamo impegnate ad offrire a queste giovani donne un vero percorso di liberazione.

*Caserta e i suoi cittadini come le hanno accolte?

Il primo spazio abitato è stato quello della canonica della chiesa di N. S. di Lourdes. Ma presto quello spazio era diventato stretto per l’accoglienza e pertanto abbiamo scelto (la nostra Congregazione) di investire in tre appartamenti, nella zona centrale di Caserta. Devo dire che all’inizio non siamo state bene accolte. Alcuni condomini manifestavano diffidenza nei nostri confronti e avevano iniziato a reagire. Si sono lasciati prendere dalla paura pensando a cosa sarebbe potuto succedere nel condominio: “chissà quanta droga, quanta prostituzione arriverà e che giro di clienti!”. Avevano iniziato a ‘fantasticare’ in negativo. Noi, per tutta risposta, abbiamo utilizzato la strategia della non violenza, del dare loro il tempo di conoscerci e di conoscere le ragazze. Eravamo convinte che tante paure si costruiscono i noi, e poi si gonfiano, perché alimentate da pregiudizi i quali impediscono di accorciare le distanze, impediscono l’incontro. Era chiaro che vedevano queste giovani migranti come portatrici di chissà quali mali. A distanza di mesi hanno iniziato ad apprezzare il nostro lavoro, a conoscere le ragazze e a chiamarle per nome. Con sorpresa hanno visto che queste giovani erano educate e ordinate; con il tempo, attraverso il nostro stile di vita, hanno imparato a vedere quanto di ‘bello’ c’era in queste ragazze. Sono arrivate addirittura richieste di lavoro, da parte di qualche condomino: tenere qualche bambino o badare ad un anziano. Era il segno che si fidavano di loro; avevano visto la dolcezza di queste ragazze. Quando siamo abitati da paure, e questo vale per tutti, si creano in noi dei fantasmi, dei nemici. Ma il modo di superare le paure e di farle rientrare nelle giuste dimensioni non è di alimentare lo scontro ma nel dare tempo perché si maturi una giusta conoscenza e lavorare con intelligenza e cuore su un possibile e necessario incontro.

*L’altra parte dell’immigrazione come è vista?

Noi abbiamo bisogno dell’immigrazione, di queste persone, così come l ‘Italia ne ha bisogno. Purtroppo ormai sull’immigrazione si va avanti a frasi fatte: “Ci portano via il lavoro”, “ sono dei criminali”. Su questo fenomeno c’è troppa montatura. Io credo che dobbiamo guardare e andare avanti cogliendo il positivo, accogliendo e sfidando la logica dell’incontro. Penso alle tante donne dell’Est, alle donne sudamericane, alle donne africane che da anni sono nelle nostre case e che ormai fanno parte delle nostre famiglie lavorando come badanti, come colf o come baby sitter. Mi chiedo se veramente riusciamo a capire che stiamo andando avanti grazie a queste presenze e al loro indispensabile aiuto? E penso anche a tutta la realtà dell’immigrazione presente, qui nel nostro territorio, nel campo dell’agricoltura: raccolta del tabacco, dei pomodori, delle fragole, delle arance che vedono la presenza di soli migranti, spesso sfruttati, che lavorano per poco o niente in condizioni spesso disumane. Se imparassimo a sentire il fenomeno immigrazione come una risorsa e ad accogliere il positivo che ci sta portando, credo che ci aiuterebbe a smontare quelle tensioni, quelle aggressività che rischiano di annidarsi nel cuore delle persone. L’immigrato, a volte, può anche tirare fuori il suo lato peggiore, ma spesso ciò avviene non perché lo vuole, ma perché si sente costantemente sotto ‘torchio’, sente di non essere considerato come una persona. Anche l’immigrato ha bisogno di sentirsi accolto, di sentirsi amato, di sentirsi valorizzato, bisogni umani, questi, che valgono per tutti. Sono convinta che tutti: istituzioni, associazioni, chiese, singoli cittadini devono assumere il volto dell’ospitalità e dell’accoglienza. Non dobbiamo avere paura dell’immigrazione, anzi dovremmo sentirla veramente una ricchezza, una possibilità che spinge anche la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra fede, i nostri sentimenti a mettersi in gioco e a rinnovarsi. E’ bello, io lo sperimento. Questa casa, Casa Rut, permette a me, alle mie consorelle e a tutte le persone che ci ruotano intorno di incontrare altri popoli, altre culture, altre religioni e tutto ciò diventa per noi una ricchezza. Ognuna/o ha bisogno dell’altro, ognuna/o si arricchisce e diventa nuova/o dall’incontro con l’altro.

*Come mai la maggior parte dei centri che aiuta gli immigrati o che si adoperano per migliorare il territorio sono centri cattolici?

Forse abbiamo quella marcia in più che ci viene dal Vangelo. Chi oggi veramente si sente cristiano è chiamato a vivere il vangelo dell’ospitalità. Il cristiano non può non accogliere lo straniero. Dare vita a centri di accoglienza o trovare forme che esprimono ospitalità: è il vangelo che ce lo indica, non abbiamo altra via. Per me, tutto quello che faccio, che sento e che vivo è sospinto dalla voce di Cristo: “L’altra è una tua sorella, l’altro è un tuo fratello”. Se non vivo, con cuore ospitale, questo incontro di volti, sento che tradirei il Vangelo di Gesù di Nazareth. Io sono del Nord, sono di Vicenza, e non riesco a comprendere nella mia mente e nel mio cuore come mai il Nord, la mia terra che mi ha formata da piccola ai valori cristiani quali il rispetto, l’onestà, l’accoglienza, la solidarietà con tutti e in particolare con i più poveri, sta prendendo questa deriva, alimentando forme dure di inospitalità. Soffro nel vedere e nel sentire questo ‘cuore duro’ che si fa manifesta nel dilagare della Lega. Non voglio fare politica, ma solo affermare che quanto sta accadendo è, per me, il tradimento
del vangelo. Non possiamo batterci per far mettere su ‘carta’ le nostre radici cristiane e poi respingere brutalmente sorelle e fratelli che vengono qui, sulle nostre terre, per un sogno di giustizia, di dignità, di pace e di vita. Ditemi voi, se una donna, un uomo che vivono nella povertà e nella miseria, non tendono a partire per cercare terre dove intravvedono possibilità di migliorare le proprie condizione di vita? L’abbiamo fatto anche noi tanti anni fa! Il ricco Nord ha tanto da raccontare, e soprattutto da tenere viva la memoria, in fatto di emigrazione. Le comunità cristiane del Nord, ma anche del Sud, non possono ritenersi tali se non sanno mettersi in gioco in tutti questi aspetti. I temi dell’accoglienza dello straniero, del rispetto dei diritti umani, della giustizia, della salvaguardia del creato e della pace ci riguardano, sono il vangelo, rivelano, se vissuti, il volto di Cristo.

*Lì al nord la vostra opera di predicazione è stata accolta?

Recentemente sono partita per incontrare tanti giovani di una scuola magistrale e questi temi li ho affrontati. Ho raccontato storie, portato istanze e speranze e devo dire che i giovani sono recettivi, sono aperti a tutto ciò che profuma di autenticità. Quella dei giovani è una realtà che mi affascina perché li trovo affamati e assetati di veri valori, sia al Nord che qui al Sud. Purtroppo sono circondati da modelli di adulti che li strumentalizzano, che li utilizzano per i loro scopi, deviando il loro cammino di crescita nella vera libertà. Il giovane, nella fase dell’adolescenza, vuole essere e sentirsi libero ma proprio per questo ha bisogno di trovare dei punti forti di riferimento, dei testimoni veri e credibili. I giovani, oggi, hanno bisogno di trovare e di sentire nell’adulto, che si fa testimone, autenticità e passione di vita. Allora crede. Io vedo che ci sono giovani che si interessano e che si appassionano nel servizio ai più poveri, agli immigrati. Quest’estate sono venuti gruppi di volontari da Vicenza, da Bologna e da Lecco. Si sono sporcati le mani qui, a Caserta, a Casa Rut, per poi fare qualcosa e portare avanti l’impegno di servizio nelle loro città. Questo sta ad indicare che ci sono ancora, e sono tanti, i giovani che desiderano spendersi per quei valori che danno gusto e senso alla vita. Oggi non dobbiamo più pensare alla massa, bisogna lavorare sui piccoli numeri. Il cristiano è il sale, il lievito, non la massa. Però quel sale, quel lievito deve stare attento a non perdere la sua identità. Se il sale e il lievito perdono le loro caratteristiche di sale e di lievito, a che servono? La massa strumentalizzata e fragile ci sarà sempre. Io mi preoccupo invece di formare giovani, adulti, gruppi che siano lievito e sale, solo così abbiamo la possibilità di fermentare e di dare sapore a questo nostro tempo. Bisogna avere fede, forza e tanto coraggio. Quando faccio da portavoce ad un gruppo mi assicuro che ci sia un gruppetto o qualcuno che diventi a sua volta un portavoce. Come un’onda che si allarga e che va a toccare altre rive. Come quando tu butti un sasso nell’acqua e si creano delle onde, ma tu non devi essere l’onda, il tuo compito è di buttare quel sasso.

*Ci può raccontare qual è il percorso di queste ragazze e il motivo per cui intraprendono questo viaggio?

Io ho avuto la possibilità di visitare alcuni Paesi da dove provengono tante giovani, quali la Nigeria, la Moldavia, la Romania, l’Albania e mi sono fatta alcune convinzioni. Le giovani partono lasciando una terra, spesso per loro matrigna, dove la grande miseria e l’elevata corruzione si intrecciano creando sofferenze, ingiustizie e oppressioni insopportabili. In quei Paesi la donna soffre e molto. Soffre portando su di sé tutto il carico della crescita dei figli. Questo è il motivo primario del perché queste donne e queste madri partono. Una partenza, quindi, accompagnata e sostenuta da un sogno: migliorare le condizioni di vita per sé e per la propria famiglia. Ed è giusto che ci sia questo sogno. Ma c’è chi, purtroppo, approfitta del bisogno e della vulnerabilità di queste persone riducendole a merce per fare denaro. C’è una criminalità transazionale così ben organizzata e ben distribuita che sa fare rete tra paesi di origine, transito e arrivo. Questo insegna che anche noi dobbiamo saper creare e fare rete tra Paesi, istituzioni, associazioni, chiese, congregazioni religiose, società civile per contrastare con forza la rete criminale. Le ragazze, in particolare nigeriane, affrontano questo viaggio: attraversano il deserto, il mare, traversate difficilissime, per poi sbarcare finalmente a Lampedusa. Una volta arrivate in Italia, gli aguzzini sono pronti a prenderle. Da quel momento sono già delle schiave. Vengono costrette con la violenza, con le minacce e con forme di coercizione psicologica, a lavorare in strada. Devono pagare ai propri sfruttatori un debito che va dai 60.000 agli 80.000 euro, che spesso contraggono già nel loro Paese. Ma in quel momento le ragazze non sanno il valore del denaro, pensano che, una volta arrivate in Italia, sia facile liberarsi dal quel debito perché qui, nel nostro Paese, ci sono tanti soldi. Un’immagine questa, del nostro Paese, che è stata inculcata loro attraverso i tanti simboli del consumismo, ormai esportati ovunque. Spesso, prima di partire, le giovani, a volte ancora bambine, sono sottoposte al rito woodoo, un rito dove si mescola religiosità e magia. All’interno del rito si fa un patto, un giuramento. Alla giovane viene detto “se non risarcisci il debito e tenti di scappare, tu morirai. Questa forza che ora ti abita dentro può trasformarsi in forza del male in grado di distruggere la tua vita, se tu tradisci e rompi il patto”. Questo rito, a causa anche dell’ignoranza, tiene le ragazze in una forma di schiavitù psicologica che le incatena ai propri sfruttatori. Per tale motivo non c’è bisogno che le ragazze siano controllate a vista. Chi le sfrutta può stare comodamente a casa mentre la ‘vittima’ è sul posto di lavoro. Al ritorno dal lavoro la giovane deve consegnare alla sua aguzzina tutto il denaro guadagnato, vendendo il proprio corpo. Oltre al debito le ragazze devono pagare, ogni mese, l’affitto della casa, 200 euro, le bollette (luce, acqua) e il mangiare, altri 200 euro. Anche il posto dove lavorano ha un prezzo, quel metro di marciapiede costa 400 /500 euro al mese che deve essere pagato alla camorra. Diventa quasi impossibile risarcire quel debito che pesa in maniera drammatica sulla vita delle ragazze. Tante ragazze, facendo quel lavoro, sono morte: uccise con violenza o dopo aver contratto brutte malattie. Molte vengono fermate dalla polizia e poi portate nei C.P.T. (Centri di Permanenza Temporanea), ora C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione). Quindi vengono imbarcate negli aerei che le riportano al loro paese. Una volta scese dall’aereo ad attenderle non sono i familiari ma nuovamente gli sfruttatori che le riprendono obbligandole, con minacce e violenze, a riaffrontare il viaggio ‘verso l’inferno’. Una delle ultime ragazze accolte mi raccontava, con gli occhi fissi e assenti, come se fossero piccoli fari puntati dentro il ricordo, del viaggio drammatico della traversata del deserto, prima di arrivare in Libia. Da Lagos (Nigeria) sono partite in nove ragazze. Due sono morte nel deserto perché il camion che trasportava un’ottantina tra uomini, donne e bambini, ammassati uno sopra l’altro, è esploso. Non ho capito se per una mina o perché il motore del camion ha preso fuoco. Un’altra è morta, a causa di febbre altissima, in Libia. Su nove ragazze solo sei si sono “salvate”. Ragazze di 18-20 anni che affrontano questi viaggi pur sapendo che sono alti i rischi di non farcela. Ma è incontenibile, in loro, la fame di vita e la sete di speranza. E’ doloroso sentire quante e quali traversie hanno affrontato per arrivare in Italia e poi quello che hanno trovato una volta arrivate nel nostro paese.

Molto spesso sono le forze dell’ordine che portano queste ragazze a Casa Rut, ma anche il cliente che si è invaghito della giovane o operatori di associazioni che lavorano con le unità di strada. Ultimamente anche le stesse ragazze, che sono riuscite a liberarsi da questo giogo disumano, sono diventate delle valide porta-voci: “Se tu vuoi c’è un posto dove puoi trovare accoglienza, ma devi essere forte”. Quando arrivano a Casa Rut inizia per loro un percorso sanitario, perché la loro priorità è quella di sapere se hanno delle brutte malattie. Il nostro primo gesto è di prenderci cura di quel corpo fracassato e sofferente. Poi inizia il percorso di alfabetizzazione. Sulla strada non c’è bisogno di saper comunicare. Gli sfruttatori hanno insegnato alla ragazza qual è il prezzo che deve chiedere al cliente, le hanno detto di stare attenta alla polizia perché spara e di non fidarsi di nessuno. Quindi comunicare non serve. Ma quando la giovane varca la soglia di Casa Rut riesce a capire, ma soprattutto sente, che è un essere umano e non un animale, e come tale portatrice di diritti, con una propria dignità che chiede rispetto e riconoscimento. La ragazza comprende allora che diventa importante e necessario saper comunicare per poter entrare in relazione con l’altro. E poi
il percorso della regolarizzazione che sta alla base di ogni cammino di riconoscimento della dignità della persona. Ma c’è anche il percorso di formazione, perché le ragazze hanno bisogno di mettere alla prova le loro capacità e di trovare un lavoro. La giovane che arriva incinta la si aiuta a portare avanti la gravidanza. Non è facile accogliere questa nuova e spesso inaspettata condizione: vivere e sentire il cambiamento-passaggio che avviene nel proprio corpo, da ragazza a gravida e poi madre in un tempo già così difficile di passaggio dalla propria terra a una terra straniera, senza nessun familiare con cui condividere la gioia della vita che sta fiorendo. Inizialmente si sentono allo sbaraglio, piene solo di paure. Hanno paura di diventare madri e poi di allevare il figlio in un Paese che sentono ancora ostile e dove si sentono sole. Noi capiamo il turbamento e le paure che abitano il loro cuore, ma è bello vedere come chi è già diventata madre si fa ‘maestra’ amorevole per le neo mamme, tra di loro si fidano. A Casa Rut la caten, che prima teneva schiave le ragazze, si trasforma e lascia il posto ad una catena di solidarietà che dà vita. Questo è il miracolo!

*Che altri lavori riescono a trovare oltre il lavoro con la cooperativa sociale neWhope?

Fino a qualche anno fa avevamo delle reti, dei punti di riferimento al Nord, dove le ragazze, al termine del percorso, riuscivano ad inserirsi nel modo del lavoro, soprattutto nelle fabbriche. Ora, con questa crisi, tale possibilità è svanita. Attualmente le uniche possibilità lavorative sono date da lavori quali colf, badanti e baby sitter. Le ragazze, anche attraverso il sostegno di famiglie amiche, imparano a fare le pulizie di casa, a conoscere e a cucinare il cibo italiano, a prendersi cura di bambini e di anziani. Tutto sommato si stanno inserendo bene, ed è una sfida anche per Caserta, perché non è facile inserire nelle nostre famiglie ragazze di colore. Alcune famiglie, con nostra sorpresa, hanno addirittura dato lavoro a donne con il loro bambino. E abbiamo notato, vedi poi come è strana la vita, che gli anziani a contatto con questi bambini ‘hanno ripreso’ vita. Siamo contente perché, anche se a piccoli passi, vediamo che le ragazze si stanno integrando, Caserta sta diventando la loro città. Con il lavoro di formazione svolto dalla cooperativa sociale “neWhope”, oltre a formarle alle regole del lavoro e ad offrire loro delle competenze sull’arte sartoriale, aiutiamo le ragazze ad aprire gli occhi per comprendere il reale ‘peso’ e il vero valore del denaro. Lavorando in strada hanno visto tanti soldi, ma solo passare tra le mani. Questo fatto ha, in ogni caso, distorto la loro idea dell’Italia, ancora pensano che nel nostro Paese ci sia tanto denaro. Ora invece hanno elaborato una visione abbastanza realistica del nostro Paese. Hanno capito che, per chi lavora onestamente e guadagna il giusto (purtroppo stanno diventano sempre meno), il denaro ha il sapore della dignità e il segno del sudore mentre prima, sulla strada, sapeva solo di dolore, di violenza e di sangue. E devo dire la verità: il denaro ora guadagnato con impegno e fatica dalle ragazze, è veramente guadagnato bene.

Noi cerchiamo di far capire alle ragazze che Casa Rut è una terra di passaggio, una terra che però profuma di casa. E’ un trampolino, poi loro stesse devono trovare e fare una loro Casa Rut. Da parte nostra il legame con queste donne e i loro bambini non si interrompe mai. Ogni ragazza accolta non è per noi un numero, non è solo un’utente, ma per noi ogni donna ha un nome, un volto, una storia, e ci diventa cara.

*Ci sono ancora molte ragazze per le strade?

Purtroppo si. Le ragazze africane, le ultime tra le ultime, continuano questa vita sulla strada. Pure quelle dell’Est sono sulla strada, ma molte di loro ormai esercitano nelle case chiuse, negli appartamenti e nei locali notturni. Il prezzo di una prestazioni, per una ragazza di colore, si aggira sui 10 – 15 euro. Mentre la per la ragazza dell’Est il prezzo sale. Anche sulla strada, luogo dell’infamia, c’è chi vale meno. Forse è anche per questo che abbiamo la casa piena di ragazze africane, perché veramente sono considerate e trattate come ultime tra le ultime.

*Ma da parte degli italiani, nonostante tutto, vi è ancora la richiesta di prostituzione?

Questo aspetto del cliente mi inquieta e non mi dà pace. Si farebbe presto a debellare questa piaga, questa forma aberrante di schiavitù, eliminando la domanda. Ci vorrebbe uno scatto culturale da parte del maschio. Chi va a cercare sesso a pagamento deve sentirsi responsabile di questa nuova forma di schiavitù. Di fronte all’alta domanda non dobbiamo pensare di trovarci di fronte a uomini malati, anche se tante volte si dice, forse per trovare una giustificazione, che sono dei malati. Ma questa è pura ipocrisia. Secondo alcune statistiche sono 9 milioni gli italiani che vanno abitualmente a comprare sesso da queste giovani. Togliendo le donne, i vecchi e i bambini, diciamo che è diventato oramai un comportamento normale, per il maschio, andare dalla ragazza di strada. Questa piaga ignominiosa chiede a tutti noi, soprattutto un forte impegno culturale ed educativa.

Su questo tema vorrei che la chiesa scendesse di più in campo e alzasse con più forza e coraggio la sua voce, dicendo: “Basta!”. Gridando ad ogni uomo, con vigore evangelico: “Non ti è lecito…”.

Perchè la prostituzione si può fermare, basta lavorare sulla domanda. “Maschio, finisci di usare queste ragazze, finisci di alimentare questo mercato, guarda dentro di te, costruisci relazioni fondate sul rispetto, sul riconoscimento dell’altro, senti che la donna è tua partner, maschio e femmina Dio li creò, a pari dignità e a pari uguaglianza. Non puoi con il denaro, che in quel momento diventa per te simbolo di potere e di dominio, comperare il corpo di una donna, di un essere umano, che potrebbe essere una tua figlia, una tua sorella. Non puoi comprare con 10-15 euro la felicità tua distruggendo e disprezzando la vita di un’altra persona, di una donna, spesso ancora bambina”. Per questo non mi stanco mai di andare a parlare ai giovani perché credo che bisogna investire molto sull’aspetto culturale, formativo. Bisogna chiedersi: “Che tipo di relazioni volgiamo costruire tra uomo e donna?”. Se tali relazioni sono fondate sul rispetto, sul pieno riconoscimento della dignità della donna, non possiamo comprare e utilizzare, riducendo a merce, il corpo di una ragazza. La chiesa, in tutto questo, la vedo troppo silente.

*Perché secondo lei la chiesa non grida questi mali?

Perché la chiesa ha ancora un volto troppo maschile e pertanto fa fatica a mettersi in gioco su queste realtà. Il volto maschile manifesta spesso il segno del potere. E la chiesa oggi rischia di dare soprattutto questa immagine. Mentre, in particolare la chiesa gerarchica, dovrebbe camminare di più sui sentieri evangelici della gratuità, della tenerezza, dell’accoglienza, della misericordia, oserei dire della ‘nudità’. Sento che dovrebbe avere l’umiltà e il coraggio di smascherare le sue tante contraddizioni, anche nei confronti della donna. La chiesa oggi è chiamata ad essere più libera da ‘sovrastrutture’ e da ‘funzioni’, per poter camminare più spedita dentro la storia. Dovrebbe essere più ardita nel suo ‘farsi compagnia’ per incontrare con autenticità e verità il volto di ogni uomo e ogni donna della terra, in particolare i volti che fanno la ‘moltitudine’ degli oppressi. Sento quanto sarebbe necessario e urgente, per poter incidere a livello culturale, che la chiesa, al suo interno, assumesse un volto più femminile, potesse essere più “mariana”, più cuore e grembo di donna.

Forse, proprio perché donna, sento maggiormente questo disagio.

*Cosa si aspetta per il futuro?

Se riferito a queste ragazze, prego per loro perché dopo l’esperienza del dolore la loro vita sia segnata dal coraggio e dalla consapevolezza che hanno una possibilità di vita sempre nuova. Se riferito al territorio, alla nostra città e alle persone che ci circondano, auguro e spero che in tutti palpiti un cuore vivo e di ‘carne’ in modo che ci sia sempre uno spazio ampio per l’accoglienza dell’altro. Il valore della vita è nel far crescere in noi ‘un cuore grande’ che non si rinchiuda mai a soffocare vita. Se si creano possibilità di vita per gli altri, quella vita ci viene ridonata in abbondanza. La mia gioia è piena nel momento in cui io posso essere gioia per altri. Come potrei sentire il gusto della vita se non sento che questa si espande anche gli altri! Per la mia Italia spero che trovi il coraggio di assumere il volto dell’ospitalità. “ Ero straniero e mi avete accolto… (Mt 25,35 ) ”. E’ questo il Vangelo della vita e della speranza.

15-01-2010