Perché “Rut”?

“Il nome dato alla Comunità trova ispirazione e significato in quella sorprendente figura femminile descritta nel libro omonimo, uno dei più piccoli dell’antico testamento, così ricco di umana carità.
Rut “l’amica” (tale è il significato biblico del suo nome), la moabita, vive in una terra straniera avendo scelto di seguire per amore la suocera Noemi, dopo che entrambe erano rimaste vedove, e in questa terra si fa spazio di accoglienza e di solidarietà, simbolo di incarnazione e della scelta preferenziale dei poveri, di chi non conta”
(Non più schiave p. 13)

IL DIO DI RUT  IL NOSTRO DIO    di Adriana Valerio

 rutDietro le immagini negative di Dio (Re guerriero, Signore punitivo, Padre severo) c’è una società maschile e patriarcale, che, evidentemente, non ha risolto nel profondo il rapporto con un “Dio-padre-tiranno”.  Come liberarci, allora, di certe false immagini, violente e distruttive? Del legislatore che chiede solo obbedienza, del re che vuole sudditi, del Signore degli eserciti in perenne guerra contro i nemici, del Padre che chiede una vita fatta di sacrifici e penitenze? La storia della spiritualità femminile ci offre degli spunti interessanti di modalità diverse di narrare Dio, di nuove parole che orientano,  aprendo nuovi orizzonti di speranza  e di comunione fraterna.  Non potendo ripercorrere in queste poche righe un intero cammino, voglio soffermarmi su un racconto “esemplare” dell’Antico Testamento, che esprime una spiritualità e una tradizione femminile: il libro di Rut. Questo piccolo libro è ambientato in un periodo che segue quello dei Giudici, segnato da grandi conflitti e violenze, ed è stato scritto dopo l’esilio babilonese, quando i giudei, tornati in patria, sentono l’esigenza  di costruire la propria identità intorno alla Legge e al Tempio. Ebbene, questo libro è in polemica con la ricerca di una identità per Israele intesa come purezza ed esclusività. Rut, la straniera moabita, è fonte di salvezza ed è l’antenata di Davide.

Rut, insieme alla suocera Noemi alla quale è unita da un forte legame affettivo, è una donna che, partendo da una condizione di sofferenza e di fragilità (vedova, povera), riesce ad inserirsi in un circuito di vita. L’amore supera ogni differenza, di razza, di costume, di tradizione. Ma dov’è Dio in questa storia? Qual è il suo volto? Dio non c’è, o meglio, è nascosto. Egli agisce attraverso gli atti d’amore dei suoi personaggi, attraverso le loro speranze, intenzioni e azioni, attraverso la rete di solidarietà che le donne sono riuscite a creare, oltre le consuetudini sociali e i doveri legali, attraverso i gesti d’amore che trovano fondamento nell’agire misericordioso di Dio. Da questo libro emergono alcuni elementi fondanti un’esperienza religiosa, che si caratterizza per i tratti femminili della tenerezza e della passione del vivere. Innanzitutto la passione della vita, in questo racconto non c’è violenza, non c’è sopraffazione, non c’è dominio: la forza della vita trova piena affermazione; poi la destinazione della vita è la felicità, non la mortificazione. Queste donne vedove non si fustigano, ma cercano la felicità, il benessere, una condizione di gioia. L’universalità dell’essere figli: queste donne costruiscono una storia di salvezza aperta a tutti: ai diversi e agli stranieri. I “giusti” anche se stranieri, insegnano a Israele a riscoprire la propria differenza non come esclusione, ma come strumento di salvezza universale. Il “nemico” ( così come erano considerati i moabiti), diventa parte della propria storia. La tenerezza: Rut non pensa a salvarsi da sola, ma riscatta la suocera, ha cura di questa donna anziana rimasta sola, perché capisce che, attraverso la solidarietà, l’amicizia e l’affetto troverà anche lei una soluzione di vita. E l’apertura al futuro: Rut e Noemi non si sentono schiacciate dal presente doloroso, ma si mettono a lavoro per costruire un futuro di dignità. Infine il punto di vista delle donne: le donne hanno un loro punto di osservazione , che la storia del cristianesimo ha spesso dimenticato, ma che va riscoperto, anche nella Bibbia. Rut e Noemi interpretano la Legge e la fanno propria, a difesa dei diritti delle donne, della vita da custodire, del futuro da realizzare.Ora, se Dio è spesso “nascosto e silenzioso” abbiamo modo, donne e uomini, di dargli voce e volto nella passione che sostiene il senso del nostro vivere, nel silenzio parlante della nostra vita, nel condividere con gli altri la tenerezza che nasce dall’accettarsi reciprocamente

 

Il Libro di Rut (riflessione di Massimo Cacciari)

RutspigolaRut, la moabita. Tra le donne della genealogia ricordate da Matteo è lei la più inquietante, e “giustamente” a lei il Primo Patto dedica un brevissimo ma fulminante libro. I moabiti sono una stirpe che inizia col superstite di Sòdoma, Lot. Fuggito da Sòdoma in fiamme Lot si ritira con le figlie sulle montagne. Le figlie lo ubriacano e giacciono con lui per avere discendenza; una situazione che per certi versi ci ricorda quella di Tamar. La prima di queste figlie concepisce Moab, mentre la seconda colui che sarà il capostipite degli ammoniti. Perciò entrambi, l’ammonita e il moabita, saranno indicati lungo tutta la tradizione biblica come popoli incestuosi. Essi non entreranno nella comunità del Signore: “Nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore” (Dt 23,4). Ed ecco che proprio una moabita è l’antenata di Davide e perciò dello stesso Messia!
D’altronde, anche prima di Matteo, Rut figurava tra gli antenati del grande Davide, e perciò le era dedicato quel piccolo, grande libro che nella Bibbia ebraica è collocato tra gli “scritti”, insieme ai Salmi, ai Proverbi, a Giobbe e al Cantico. A mio avviso questa collocazione è assai più consona al carattere del libro di quella cristiana che lo colloca, come già i Settanta, tra i Libri storici, ma per motivi del tutto estrinseci. Sembra che il libro risalga al IV-V secolo a.C. un periodo molto significativo per la storia di Israele, un periodo nel quale Israele lotta per difendere l’integrità del proprio culto nei confronti di popoli, culture e tradizioni straniere, un periodo di conservazione anche in seguito alla grande catastrofe dell’esilio. E’ ciò che fa emergere ancora di più la straordinarietà della testimonianza che ci offre il libro di Rut 

Umiltà che lotta

Il contenuto del libro è noto, ma vale la pena ricordarlo. Un uomo di Betlemme di Giuda è costretto a emigrare dalla sua terra a quella di Moab a causa di una carestia. Emigra con la moglie Noemi (che significa “dolcezza”) e i suoi due figli. La famiglia si stabilisce nel territorio di Moab senza alcun conflitto con gli indigeni
che vi risiedono (o almeno nulla si dice a proposito), e tuttavia è colpita spietatamente dal Signore. E’ una sorte, la sua, simile a quella di Giobbe, “Senza ragione” il Signore li mette alla prova più dura.
Dopo la morte del marito, Noemi deve piangere anche quella dei due figli, uno dei quali si era sposato con Rut. Noemi muta, allora, il suo nome in quello di Mara (che vuol dire “amarezza”) e dice alle nuore: “Io sono molto più amareggiata di voi, poiché la mano del Signore è rivolta contro di me” (Rut 1,13). Noemi è abbandonata, sola e straniera nella terra di Moab. E invita le due nuore ad abbandonarla, a non seguirla nel suo disperato ritorno in Giudea.
Pur addolorata di dover abbandonare la suocera, una di esse decide di stare con il suo popolo. Rut invece, senza spiegarne il motivo, apparentemente senza alcuna ragione, non si stacca da Noemi – Mara: “Non insistere con me che ti abbandoni – ella dice – perché dove andrai tu andrò anche io, e dove ti fermerai, mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anche io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cose, che non sia la morte, mi separerà da te” (Rut ,16-17) . E’ una parola assolutamente imprevedibile, fatta di amore assoluto, una decisione che nulla calcola, che nulla scambia. Puro dono. E tuttavia è testimonianza di un amore totalmente umano e terreno; Rut ama in modo incondizionato una persona in carne e ossa. Non si è convertita al Dio di Noemi, ma poiché ama Noemi fa proprio anche il Dio di quest’ultima. Al Dio di Israele ella perviene attraverso l’amore per questa sua prossima, per il suo prossimo più abbandonato, derelitto, disperato. E dunque Rut lascia la sua terra, i suoi consanguinei, abbandona tutto il “suo” per donarsi tutta all’altra.
Matteo non poteva non ricordare in questa figura le radicali parole della “decisione” di Gesù stesso: “Lascia tutto, seguimi” (Mt 19,21). Così fa Rut: per seguire Noemi lascia perfino il suo dio e si umilia ai mestieri più poveri, spigolando dietro ai contadini, raccogliendo ciò che avanza dal loro lavoro, come i più poveri dei poveri in Israele.
Noemi senza marito e senza figli; Rut senza figli, vedova, e per di più straniera, e non una straniera qualsiasi, ma una moabita, una del popolo incestuoso e maledetto. Entrambe ridotte all’umiltà totale: umili davvero da humus, letteralmente “a terra”.
Ma Rut è della stirpe di Tamar e Raab. La sua umiltà è fatta anche di lotta. Ella lavora nelle campagne di Booz ( che significa “in lui la forza”). Pur essendo un parente di Noemi, egli non ha alcun obbligo diretto di accudirne la famiglia. Tuttavia dà cibo e lavoro alla moabita, la accoglie e lentamente (se ne accenna nel racconto, anche se con grande pudore)prova affetto per questa straniera, fino a riscattarla dal primo parente e a farla sua sposa. Dal legame tra Rut e Booz nascerà il padre del padre di Davide.

Una conquista disarmante

Ma come ha potuto Rut “conquistare” Booz, il “forte”? Non viene agli inerti e ai negligenti la libertà; essa viene soltanto a coloro che vogliono ardentemente conquistarla. Sta scritto: il regno dei cieli sarà dei “violenti”, dei biastoi termine non diversamente traducibile. Soltanto bia , sta per forza e violenza, attraverso la porta più stretta è “assalibile” il regno dei cieli.
Rut perciò è insieme perfettamente umile e perfettamente decisa a ottenere la sua liberazione. Come una figlia di Lotentra nel letto di Booz per averlo. Né Booz si stupisce che Rut voglia giacere con lui; se non la tocca, è perché proprio allora capisce di volerla in sposa e di fronte ai testimoni dice: “Ecco Rut, è diventata mia sposa” (Rut 4,9-11).Apertura e paradossalità dei testi biblici, scevri da ogni ipocrisia e moralismo, davvero liberi dal cattivo senso comune.
Rut conquista il suo uomo con un gesto “scandaloso”. E proprio questo viene benedetto dal Signore! Nasce così il figlio Obed, che sarà il padre di Iesse, padre di Davide.
Ma questo Obed non è solo figlio di Rut, è anche figlio di Noemi! “Noemi prese il bambino,se lo pose in grembo e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: “E’ nato un figlio a Noemi”! (Rut 4,16-17). Il legame tra le due donne è tale per cui è come se generassero insieme. Iltopos biblico della donna vecchia, senza più speranza, che riesce ancora a partorire, qui si ripete. Il puro dono di amore di Rut a Noemi si incarna in Obed.

La sacralità dello straniero

Cerchiamo di approfondire ancora la carica provocatoria di questo libro. Anzitutto, qui si pone “in crisi” quell’esclusivismo di Israele, di cui nella Bibbia stessa possiamo trovare innumerevoli testimonianze: Israele è solo, è la sposa pura che nessuno può contaminare…
In Rut troviamo l’altra faccia del Grande Codice: lo straniero (non soltanto colui che ospitiamo e diventa proselito, cioè vive presso di noi, “integrato” in noi), lo straniero davvero totalmente tale è sacro. Dio non vuole sia toccato. Anzi, è proprio lui che si deve amare. Questo è il timbro bibilicato che verrà assunto con univoca purezza nelle parole di Gesù. L’amore supera ogni differenza di razza, di gente, di costume, di tradizione.Ma il racconto di Rut pone un problema più radicale. Abbiamo detto che ella segue Noemi e che solo attraverso Noemi aderisce al Dio di Israele. Ma chi è questo Dio? Far proprio il dio vittorioso è facile; nell’antichità classica ciò accadeva costantemente; è ben noto che quando i Romani ponevano l’assedio a una città, prima di distruggerla, ne invocavano gli dèi, invitandoli a passare dalla loro parte, invitandoli a entrare nel loro pantheon. E’ sempre stato facile aderire al dio dei vincitori. Rut invece segue Noemi, che dal suo Dio è stata addirittura abbandonata. Rut segue il Dio dei vinti e condivide l’amarezza dei suoi fedeli. Così Cristo sulla croce obbedisce al Dio che lo ha abbandonato. Lui abbandonato vuole che si segua la volontà del Dio che abbandona, dell’opposto esatto dei dio che si manifesta per segni di vittoria.
Un passo ulteriore: il Dio che abbandona è nella sua essenza il Dio “non mio”, il Dio cioè di cui mai posso impadronirmi. Ma questa è la verità stessa del Dio biblico. L’insistenza biblica sul Dio nascosto, sul silenzio di Dio, sulla sua stessa “ira”, che altro non significa che il suo silenzio o il suo abbandonarci, non esprime se non la verità del fatto che il rapporto dell’uomo con Dio non potrà mai essere improntato a termini di acquisizione e di possesso. Mai Dio può essere fatto “ente” o “cosa” su cui costruire tranquille dimore. Mai può essere ridotto a mio certo fondamento. In ciò consiste la provocazione fondamentale del libro di Rut.
Capace di perfetto amore è una straniera in Israele; ella perviene al Dio di Israele solo attraverso l’amore, anzi l’aver cura concreta del prossimo; questo Dio non è “suo”, poiché mai Dio può trasformarsi in fondamento o possesso, poiché Egli è Voce che chiede di essere seguita e di tutto abbandonare per seguirla; infine, per seguire tale Voce, per “liberarsi” a essa, occorre forza,energia, occorre apparire anche violenti agli occhi di ipocriti e scribi, alla “troppo umana” misura delle loro “leggi”.

 

Lascia una risposta


*